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Vado a vivere a Mumbai

di Gioia Guerzoni

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30 settembre 2009

«Trecento persone al giorno», dichiara il chaivala, il venditore di tè, con un gran sorriso, allungando un bicchierino di liquido bollente. Lo dice con orgoglio misto a preoccupazione, ma sempre con quel fatalismo scanzonato tipicamente indiano, e ancor più tipico di chi abita in questa megalopoli. Ogni giorno trecento aspiranti mumbaikar, abitanti di Mumbai, approdano da tutta l'India al Chhatrapati Shivaji Terminus, la stazione ferroviaria principale della città, dove passano quotidianamente due milioni di persone. Nonostante i giorni neri degli attacchi terroristici del 26 novembre 2008, la megalopoli indiana, con i suoi venti milioni di abitanti, rimane la Mecca del cinema, la capitale del commercio, il sogno di chi voglia tentare la fortuna.
Il problema degli spazi - legato a quello dell'immigrazione - è stato tra gli argomenti più dibattuti dell'ultima campagna elettorale. Mentre Mukesh Ambani, nababbo della petrolchimica Reliance, uno degli uomini più ricchi del mondo, sta per trasferirsi nel suo grattacielo di ventisette piani - costato due miliardi di dollari: con palestre, cinema, elipad, giardini pensili, campi da tennis, sei piani di parcheggi e seicento dipendenti per sole sei persone - l'impiegato medio fatica persino a trovare un appartamento.
Nella città più cosmopolita del Subcontinente non bisogna fare i conti soltanto con gli spazi, ma anche con la ghettizzazione delle caste e l'islamofobia, che si è acuita dopo gli attentati di novembre. Anche per gli scrittori trovare casa è un problema: il primo a parlarne è stato Suketu Mehta nel suo Maximum City (Einaudi 2006): «Vengo da New York e a Bombay sono un poveraccio. L'affitto medio per un appartamento carino, con due camere da letto, a South Bombay, dove sono cresciuto, è di tremila dollari al mese». Ma gli ostacoli non sono solo di natura economica: Aravind Adiga, vincitore del Booker Prize con il romanzo La tigre bianca (Einaudi 2008), ha descritto in un articolo pubblicato sul Guardian le sue peripezie per trasferirsi a Mumbai. «Ho scoperto che esistono tre tipi di scapolo: il company bachelor, che lavora per qualche multinazionale e quindi sfoggia una ricca busta paga, il married bachelor, che vive da solo ma ha una moglie in Canada o in Inghilterra, o perlomeno così dichiara. Poi, all'ultimo gradino, c'è il single bachelor, niente moglie, né busta paga». Se in più sei uno scrittore non hai speranze: nessun padrone di casa vede di buon occhio chi passa la giornata al computer invece di cercar moglie. E infatti Adiga ha dovuto accontentarsi di una zona popolare a un paio d'ore dal centro, raggiungibile con i temibilissimi treni locali dove, nelle ore di punta, ci si può ritrovare in dieci in un metro quadro.
Altaf Tyrewala, altro giovane prodigio della letteratura indiana (Nessun dio in vista, Feltrinelli 2007), ha un problema ancora più grave: è musulmano. La sua esperienza è così kafkiana che un regista di Mumbai ha deciso di registrare le sue telefonate alle varie agenzie. Le conversazioni, per le quali l'autore ha usato uno pseudonimo musulmano, confluiranno poi in un documentario sulla città. Come nel caso di Adiga, il fatto che Tyrewala sia uno scrittore non l'ha aiutato per nulla, tanto che sta valutando seriamente l'ipotesi di tornare a New York.
Quando si supera l'esame del nome di famiglia, si può chiedere al broker se il palazzo o il caseggiato - in India si parla di society o colony - è cosmopolitan, in questo caso sinonimo di multireligioso. Tutte le grandi città del Subcontinente sono di fatto mappate in base alle religioni, a caste e sottocaste, alla lingua e allo Stato di provenienza, e anche alle abitudini alimentari. Per quanto possa sembrare assurdo, spesso è proprio il pretesto del vegetarianesimo a fungere da elemento discriminante. Una delle comunità più potenti e numerose di Mumbai è per esempio quella dei Gujarati, che hanno colonizzato alcune delle zone più ricche della città, escludendo del tutto l'accesso ai non vegetariani.
Per divorziati e single la ricerca di una casa diventa una missione impossibile: spesso finiscono per condividere un bilocale in tre o quattro, o prendono in affitto una camera presso una famiglia, oppure, se ne hanno diritto, optano per gli spartani ostelli dei lavoratori. Il controllo sociale è talmente capillare da aver frenato la diffusione della ricerca di case sul web. Sono quasi tutti i liberi professionisti a essere discriminati: artisti, fotografi, operatori cinematografici e ovviamente le ballerine (versione indiana delle nostre cubiste) che, dalla chiusura dei dance bar nel 2006, si sono ritrovate senza casa, oltre che disoccupate.
Ma torniamo alla ricerca vera e propria: individuato il quartiere adatto alle proprie possibilità economiche, in una colony idonea ai requisiti religiosi, castali, linguistici e alimentari, si devono presentare le proprie referenze, con una modulistica ben precisa e una trafila che parte dal broker e finisce - a colpi di mazzette - al vaglio della polizia, per il controllo finale. Il deposito è carissimo, fino a un anno di affitto, e non garantisce nemmeno di arrivare alla scadenza del contratto.
Di conseguenza, quello dell'agente immobiliare è un lavoro ambitissimo e delicato, specialmente a Mumbai. I broker fanno una preselezione della clientela, ecco perché si trovano a ogni angolo della città: sono circa 15mila nella sola Bandra East, lussuosa zona residenziale prediletta dalle star di Bollywood. Gli agenti immobiliari hanno un'enorme influenza sul futuro dei mumbaikar. Impensabile affittare, acquistare e in alcuni casi persino edificare senza di loro: prendono contatti con i costruttori - attori fondamentali nello sviluppo urbano della città - quando non è ancora stata posata la prima pietra e, assieme a loro e ai proprietari, stabiliscono i prezzi di vendita e di affitto. Come quasi tutti i mestieri in India, anche quello dell'agente immobiliare si tramanda di padre in figlio.
  CONTINUA ...»

30 settembre 2009
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